Il Valore del Raccontarsi in Psicoterapia

Psicoterapia - Dott.ssa Anna RossiPsicologa Psicoterapeuta a Reggio Calabria

“L’intera attività terapeutica è in fondo questa sorta di esercizio immaginativo che recupera la tradizione orale del narrare storie: la terapia ridà storia alla vita".
- J. Hillmann

Bruner (2003) distingue due diverse ed autonome modalità di pensiero dell’essere umano: quella paradigmatica o logico-scientifica che, procedendo attraverso modalità formali di descrizione e spiegazione, consente di risolvere i problemi della vita quotidiana, e quella narrativa che, attraverso la costruzione di storie, consente di fare ordine nel mondo ed attribuire significato alle proprie esperienze. Mentre la prima modalità risponde a principi di esattezza e verità, per la seconda è sufficiente garantire verosimiglianza.

In modo analogo a Parry (1997) che definisce l'uomo narrativo per natura, Hermans (2002), utilizzando la metafora di uomo come motivated storyteller, definisce la costruzione di storie come un impulso umano onnipresente. Dalla stessa prospettiva Neimeyer (1995) sottolinea come l’identità stessa di un individuo prenda forma da un continuo e dinamico processo di autonarrazione: attraverso il racconto di storie in cui è possibile rappresentare il passato, connotare ciò che è oggettivo in termini soggettivi, nonché prefigurare il futuro, prende forma la coscienza autobiografica, presupposto fondamentale per garantire unitarietà e coerenza al senso di sé. Neimeyer (2004) considera come le narrazioni prodotte dagli individui assumano valore a tre diversi livelli: individuale, interpersonale e sociale. Secondo l’autore gli esseri umani utilizzano storie per dare significato alla propria vita, alle esperienze vissute, alle scelte operate (Giddens 1991; Polkinghorne, 1988), ma anche per presentarsi agli altri ed alla società più ampia (Lieblich, Tuval-Mashiach e Zilber, 1998). In questo senso l’identità del narratore non sarebbe data una volta per tutte nelle storie cui da vita, quanto piuttosto continuamente costruita e modellata in un contesto interpersonale e sociale che è in grado influenzare il modo in cui tali storie vengono create.

La spinta a raccontare storie su sé ed il mondo prenderebbe forma da quelle motivazioni che McLean (1984) definisce nel suo modello neocorticali, ossia rivolte a costruire e condividere con altri significati e conoscenza (Liotti, 1994). In questi termini le narrazioni sarebbero riflesso di meccanismi motivazionali innati e regolati dalla neocorteccia, meccanismi che distinguono l’uomo dalle altre specie spingendolo a creare nuove consapevolezze e a ricercare forme più evolute di regolazione del comportamento.

Molti psicoterapeuti, che individuano il fulcro del loro lavoro nel racconto di storie, si sono occupati di indagare i risvolti terapeutici dei processi di narrazione. Attraverso l’analisi di trascritti a mezzo del metodo clinico del Tema Relazionale Conflittuale Centrale, Luborsky (1992) ha evidenziato come all’interno delle narrazioni siano identificabili dei pattern relazionali ricorrenti che, secondo l’autore, sono il riflesso di schemi più generali di relazioni tra sé e l’altro. Angus ed i suoi collaboratori (1999) hanno invece rilevato come un incremento di elementi di riflessività all’interno delle narrazioni, come ad esempio interpretazioni di eventi esterni o di esperienze interne piuttosto che semplici descrizioni, sia da considerare indice di buon out come terapeutico. Gonçalves e Craine (1990) hanno enfatizzato il valore dell’uso di metafore nel processo terapeutico e insistito sul valore della psicoterapia quale strumento per condurre il paziente alla creazione di nuove storie, ossia di modi alternativi e più funzionali di attribuire significato alle proprie esperienze di vita. Anche Mc Mullen (1996) ha identificato il valore terapeutico delle narrazioni nell’uso di metafore, consentendo queste di metariflettere su sé, sui propri agiti, sulle proprie emozioni e relazioni, e di conseguenza di facilitare il cambiamento.

Liotti (1999) ha guardato alle storie di vita quale strumento che consente al terapeuta di cogliere le credenze e le rappresentazioni che guidano l’esperienza soggettiva del paziente e, in virtù di ciò, di orientare l’intervento verso specifici obiettivi, di monitorare l’andamento della relazione terapeutica e di utilizzare quest’ultima per dar vita ad esperienze correttive.

Più che al contenuto delle narrazioni, alcuni autori si sono interessati del modo in cui queste risultano organizzate, considerando l’organizzazione delle narrazioni dei pazienti un semplice riflesso del modo in cui questi organizzano la loro intera esperienza soggettiva. In questa prospettiva Dimaggio e Semerari (1999) hanno proposto una tassonomia delle forme narrative osservabili in terapia:

  • Povertà narrativa: riguarda quegli individui le cui storie appaiono scarne di contenuti e dettagli, e pertanto inadeguate a consentire all’individuo di muoversi con destrezza nella complessità delle realtà esterna.
  • Difficoltà di gerarchizzazione: in questo caso gli individui tendono a raccontare una molteplicità di storie i cui rapporti reciproci appaiono spesso intricati e senza che sia garantito alcun ordine.
  • Difficoltà a distinguere tra vero e verosimile: si tratta di storie affascinanti e molto ricche di dettagli, che vengono utilizzate al solo fine di attirare l’attenzione dell’interlocutore, perdendo rilevanza l’aderenza alla realtà dello stesso racconto.
  • Difficoltà di integrazione delle narrazioni: in questi casi le storie contengono rappresentazioni molteplici di sé e dell’altro senza soluzione di continuità, ossia senza che vi sia una prospettiva di ordine superiore che integri tali rappresentazioni spesso contraddittorie in un sé coeso ed unitario.
  • Difficoltà di attribuzione alla corretta funzione mentale: in questo caso i narratori sembrano aver perso la capacità di distinguere se il contenuto del loro racconto corrisponde a qualcosa di realmente accaduto, sognato o fantasticato.

Secondo gli stessi autori il terapeuta dovrà in questi casi intervenire svolgendo una funzione vicariante che consenta al paziente di costruire narrazioni che siano in grado di orientarlo con più successo nel mondo. Il qui e ora della terapia rappresenterà il campo entro cui il paziente potrà vivere nuove esperienze e, alla luce di queste, scrivere un nuovo racconto della propria vita in cui i vecchi copioni e le vecchie trame lasceranno spazio a una creativa assunzione di responsabilità verso il possibile.


Bibliografia

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BRUNER J. (2003). La mente a più dimensioni. Laterza, Roma-Bari. [Ed. orig. 1986].

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GIDDENS A. (1991). Modernity and Self Identity. Stanford, CA: Stanford University Press.

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LIOTTI G. (1994). La dimensione interpersonale della coscienza. La Nuova Italia Scientifica, Roma.

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Dott.ssa Anna Rossi
Psicologa Psicoterapeuta a Reggio Calabria

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Dott.ssa Anna Rossi
Psicologa Psicoterapeuta a Reggio Calabria

Iscritta dal 2007 all’Albo degli Psicologi della Regione Calabria n. 1052
Laureata nel 2005 in Psicologia, indirizzo psicologia del Lavoro
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