Perché giocare è una cosa seria

Dott.ssa Anna RossiPsicologa Psicoterapeuta a Reggio Calabria

Il gioco fisico brusco e/o il gioco di caccia-e-schiva sono facoltà intrinseche di ogni specie di mammiferi, raffinate mediante prove che contribuiscono a promuovere le affiliazioni sociali e lo sviluppo epigenetico completo di cervelli sociali.
Panksepp e Trevarthen (2009)

L'infanzia è per eccellenza il regno del gioco. Per individuare le qualità del gioco sociale dei bambini sarebbe sufficiente osservare una interazione al parco giochi e lasciarsi travolgere dalle loro grida di gioia e dalla vivacità dei loro movimenti durante un inseguimento mentre, insieme, cominciano a darsi delle regole di interazione e a coordinarsi rispetto queste.

Molti adulti sanno conservare e utilizzare quella parte di sé per fare ulteriore esperienza del mondo e accedere a più sofisticati livelli di funzionamento sociale.

Quando ad esempio con la mia amica e collega ironizziamo su come la mia mano vada diritta sul fianco, le mie spalle si aprano e la mia schiena si raddrizzi ogni qual volta mi sento minacciata, e su questo ci facciamo una grossa risata, stiamo giocando. E se quel gioco ha luogo non appena quel comportamento viene istintivamente prodotto, esso ha il potere di disattivare il senso di minaccia: il mio assetto di difesa diventa allora una posa che a quel punto posso meglio osservare e comprendere senza che mi identifichi totalmente con essa. E la risata della mia amica e collega, in un contesto di relazione sicura, diventa il segnale d'invito al gioco che mi permette di fare quel passaggio.
Noi adulti giochiamo ad esempio quando, aprendo le porte alla spontaneità, mostriamo agli altri la nostra parte più buffa accantonando la paura del rifiuto e del giudizio. Giochiamo anche quando, per motivi futili o per nessun motivo, ci lasciamo andare con il partner a sottili o più esplicite punzecchiature simulando una lite, mentre contemporaneamente ci scambiamo segnali di sicurezza.

Comprendere questo aspetto del gioco, la sua funzione nel guidare la comprensione delle intenzioni dell'altro, la possibilità di osservare ed esplorare alcune parti di sé senza che ci sia identificazione totale, è di fondamentale importanza.

Nei cani ad esempio un comportamento predatorio può appartenere alla sfera predatoria o a quella sociale. Pur essendo il linguaggio del corpo e le posture dell'atto predatorio in entrambi i casi gli stessi, ciò che consente di individuare la precisa motivazione sottostante è la mimica facciale, quasi inesistente nel primo caso e più eloquente nel secondo. E così, quando con il mio cane giochiamo al tira-e-molla o a fare la lotta, pur esibendo comportamenti tipici dell'atto predatorio, siamo entrambi capaci di scambiarci continue informazioni a un livello più sottile che tradotte suonerebbero come "non ho alcuna intenzione di farti del male". In questi casi, se il legame sociale è forte e sicuro, se la comunicazione è chiara, sarà sufficiente un "basta" per abbassare i livelli di eccitazione e scalare di marcia, direttamente dalla quinta alla prima. Nel frattempo io mi sarò divertita e così il mio cane. Entrambi avremo allenato alcune nostre motivazioni biologiche e insieme avremo rafforzato la capacità di mantenere stabile e attiva la comunicazione sociale durante i picchi di eccitazione. Entrambi avremo contribuito all'evoluzione della nostra relazione e all'ampliamento della nostra comfort zone.

Herbert Spencer definiva il gioco come un surplus di energia rispetto al soddisfacimento dei bisogni primari e funzionale allo sviluppo di attività mentali. I bambini, come tanti mammiferi, imparano attraverso il gioco le leggi che regolano il rapporto con il mondo e con gli altri, fanno esercizio delle loro abilità, esplorano il loro mondo interno fatto di istinti e desideri e comprendono il modo in cui questo può essere mediato con la realtà esterna. In altri termini, nel gioco strutture innate vengono trasformate in strutture più complesse e più adeguate a sostenere l'adattamento.

Dal punto di vista neurobiologico le ricerche sul cervello mostrano come il gioco attivi il rilascio di oppioidi e dopamina, le cui funzioni sono rispettivamente quelle di rendere piacevole l'esperienza e di rinforzarla, di modo da poterla riproporre successivamente avendo contezza delle regole che la attivano e che la interrompono. Sempre a livello di funzionamento cerebrale la piacevolezza del gioco disattiva i sistemi di difesa di modo che i partner possano essere coinvolti in una pratica relazionale reciproca caratterizzata da apertura, fiducia, esplorazione, impegno e apprendimento.

Possiamo dunque affermare che il gioco fornisce una importantissima occasione di apprendimento sociale: attraverso il gioco il bambino impara a leggere e produrre una grande quantità di segnali non verbali, a comprendere con più sottigliezza le intenzioni dell'altro e a discriminarle, a sperimentare nuovi aspetti di sé e ad esercitarli, a fidarsi e a rimanere in connessione con l'altro. Quando il livello di sicurezza e fiducia tra i partner è buono, il gioco può spingersi a simulare situazioni pericolose senza il rischio e la paura di rimanere feriti. Spontaneità, divertimento, risate, intensificano il legame interpersonale e lo colorano di quella fiducia fondamentale per rimanere in relazione nei momenti difficili. Vivere momenti di gioia reciproca costruisce sicurezza e offre quello slancio necessario a esplorare il dolore o altre esperienze traumatiche.

Se il gioco dunque necessita di un solido legame tra gli individui coinvolti, esso può al contempo consentire a questo legame di evolversi verso maggiori sicurezza e solidità. Giocare può essere dunque profondamente terapeutico e portare il gioco nello spazio di terapia, tra noi e i pazienti o nel lavoro tra genitori e bambini, rappresenta una questione molto seria: un modo per aiutarli a disinnescare il sistema difensivo, a costruire fiducia, a rimanere aperti, coinvolti e impegnati nelle interazioni e più capaci di "restare in relazione" mentre si attraversano esperienze dolorose.


Dott.ssa Anna Rossi
Psicologa Psicoterapeuta a Reggio Calabria

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Dott.ssa Anna Rossi
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Iscritta dal 2007 all’Albo degli Psicologi della Regione Calabria n. 1052
Laureata nel 2005 in Psicologia, indirizzo psicologia del Lavoro
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