Chi è il maestro?

Dott.ssa Anna RossiPsicologa Psicoterapeuta a Reggio Calabria

La Terapia come la Prospettiva Nevski

“E il mio maestro mi insegnò com'è difficile trovare l'alba dentro l'imbrunire”
- Franco Battiato

È un martedì pomeriggio lavorativo dopo le festività natalizie. Decido di concedermi una breve pausa di distrazione da una giornata che avanza con ritmo sostenuto. Mi affaccio su facebook per una sbirciatina e poi, da lì, salto subito ai contatti in rubrica. Li scorro velocemente fino a quando non trovo quello che sto cercando, e poi digito: “ma dimmi un po', il corso sulle tecniche immaginative dove lo fate?”. La risposta arriva un’ora dopo offrendomi l’occasione di un altro attimo di respiro. Leggo: “ancora formazione in TMI vuoi? Ma stai bene?”. Sorrido.

Uno scambio di battute in chat per assecondare quel bisogno, che leggo solo dopo, di sentirmi ancora allieva di chi ha avuto il merito di indicarmi, più o meno consapevolmente, la strada che già – forse – coltivavo dentro. Un maestro per me prima ancora che con i suoi colleghi desse vita alla TMI, quando la sua attenzione si volgeva a indagare il ruolo della narrazione in terapia. Ricordo come, ogni anno, alla consegna del calendario didattico, le sue lezioni fossero la prima cosa che andavo a cercare. Di quanto le trovassi divertenti, brillanti e ricche di spunti originali. Di come, ogni volta, riuscissero a rassicurarmi circa la possibilità di trovare, nel vasto mare delle psicoterapie cognitive, un posto per il mio animo naif. Immagino la mia risposta alla sua domanda “stai bene?”. Sarebbe suonata più o meno così: “sto bene ma ho come l’impressione che starei meglio se potessi tornare in aula ad ascoltare le cose che già tante volte ti ho sentito dire. A prendere appunti che poi, inevitabilmente lo so, resteranno confinati in uno scaffale della mia libreria che neanche ricorderò qual è. Se potessi tornare a sentire la motivazione lievitare per effetto della penna che scorre sul foglio mentre scarabocchia i punti chiave del tuo discorso. Come se fossero cose da non dimenticare mai. Come se in quel modo mai li potrò dimenticare”. Ma mi fermo e mi osservo. E ricordo che il vero insegnamento non sta lì.

Avere un maestro è stato sempre importante per me. L’ho sempre cercato e, allo stesso tempo, l’ho sempre scelto con cura. Utilizzando come criterio di selezione - termine caro a chi come me proviene da studi organizzativi – la policromia dello sguardo sul mondo. Perché sentivo che proprio lì, in quella molteplicità di colori, avrei imparato finalmente a contenere quella complessità che, ai miei occhi, la realtà ha sempre avuto. Dare contenimento alla complessità senza rinunciare ad alcuna sfumatura.

Anche i pazienti a volte possono vedere nei terapeuti dei maestri. E quando utilizzo il termine maestro mi piace farlo rimanendo il più possibile lontana da una accezione pedagogica. Perché sarebbe un problema se un terapeuta declinasse la propria professione nell’arte, tra l’altro arrogante e utopistica, di dare giusti consigli, di insegnare a discernere quello che è giusto da quello che è sbagliato, di fornire un programma dettagliato di cosa esattamente, di fronte a un dato problema, va fatto. Ma andiamo con ordine. È inevitabile che ogni paziente, nel momento in cui arriva in terapia, cominci a costruirsi ipotesi e fantasie su chi si trova davanti. È una normale attività umana quella di fare inferenze e costruire rappresentazioni del mondo. E capita di frequente che nella mente del paziente, almeno in una prima fase, il terapeuta venga tratteggiato come colui che detiene la formula magica per “stare al mondo”. Come colui a cui chiedere cosa sia meglio fare o non fare in una data situazione. Dal canto nostro noi terapeuti sappiamo bene come richieste del genere non vadano assolutamente incoraggiate. Agire secondo quelle modalità non farebbe altro che alimentare una dipendenza disfunzionale, impedendo alla persona di attivare le proprie risorse interne e di aprirsi all’esplorazione. In altri termini sarebbe profondamente antiterapeutico se la relazione tra paziente e terapeuta si esaurisse in un travaso di nozioni e informazioni sul mondo, che poi sarebbero comunque sempre soggettive. Sempre parziali. Quando uso la parola maestro lo faccio invece da una prospettiva che in parte si avvicina, pur non coincidendo, al concetto di modellamento di Bandura. Modellarsi significa, secondo la teoria dell’apprendimento sociale, approdare a nuovi apprendimenti guardando il comportamento di un altro che viene assunto come modello. E a sua volta osservare un modello consente di rivedere le concezioni e le aspettative che si hanno nei confronti degli altri, di se stessi e della vita; di acquisire nuovi modi di agire arricchendo il repertorio comportamentale. A tal proposito O'Connor osservò come la visione, da parte di bambini isolati socialmente, di un filmato in cui bambini della stessa età partecipavano a momenti di interazione interpersonale, produceva come effetto nei primi un aumento nella frequenza dei rapporti interpersonali. Ma ancora il modellamento consente di facilitare – cosa che accade molto spesso in terapia e che è auspicabile che accada - l’utilizzo di modalità comportamentali che fanno già parte già del repertorio del paziente ma che per qualche motivo sono state accantonate. In questi casi il terapeuta modello, consapevole della relatività del suo sapere e della sua visione del mondo, rimane agganciato a questa consapevolezza e, proprio in questo modo, facilita l’emergere della natura particolare dell’allievo paziente. Delle sue peculiarissime capacità e dei suoi peculiarissimi talenti. In terapia infatti non è tanto il comportamento del paziente che viene a essere modellato, né la sua visone delle cose. Ciò che si modella è più di ogni altra cosa l’atteggiamento nei confronti della vita in generale; delle difficoltà, della sofferenza e della capacità di farvi in qualche modo fronte in particolare. È in questa direzione che si muove la self disclosure, una tecnica terapeutica in cui il terapeuta decide deliberatamente di raccontare qualcosa di sé al paziente. Di condividere con questi alcuni aspetti reali e autentici della sua vita che lo accomunano proprio a quello che il paziente sta raccontando. Con l’autosvelamento il terapeuta si concede di diventare trasparente, di rendersi volontariamente visibile. Di essere, mentre fa questo, un modello ma anche uno specchio - e qui sta la differenza con Bandura troppo focalizzato sull’imitazione e poco sull’insight - per i processi emotivi e razionali del paziente. Un’operazione che demistificando la figura del terapeuta crea maggiore uguaglianza nei livelli di potere, incoraggia la libertà nel raccontare difficoltà e debolezze, normalizza esperienze dolorose e aumenta l’intimità. Che fa accomodare il paziente in un luogo in cui gli è più agevole guardare alle sue esperienze di vita e ai suoi problemi; in cui gli è più semplice immaginarsi mentre sperimenta soluzioni. Un terapeuta maestro che non istruisce, a cui non affidarsi ciecamente e dalle cui labbra non pendere. Non superiore e neanche inaccessibile. Ma un terapeuta “alla portata”, con cui sperimentare comunanza, alla cui storia guardare per trovare la forza di percorrere la propria strada.

E adesso faccio un salto indietro per tornare a quell’insegnamento che per un attimo avevo dimenticato. Ricordo quando, durante un congresso a Roma, Daniel Hughes propose alla numerosissima platea di terapeuti che come me desideravano tornare a sentirsi allievi, la videoregistrazione di una sua seduta. Nel filmato tutto sembrava funzionare abbastanza bene fino a quando Hughes fece una operazione che mise in crisi l’alleanza tanto faticosamente costruita con un minore problematico. Daniel Hughes stava sbagliando e lo stava facendo vedere a tutti. Ricordo quell’episodio con immensa gratitudine per due motivi. Il primo, che è un augurio per tutti i pazienti, è che l’errore è parte integrante della vita. Che l’importante non è non sbagliare, quanto piuttosto accorgersi dell’errore e cercare di aggiustare il tiro. Guardare all’errore come a una benedizione capace di portarci un passo più in là. Il secondo, a me profondamente caro, sta nel fatto che, tra tutte le videoregistrazioni da mostrare a delle persone giunte fin lì ad ascoltarlo da più di 20 paesi del mondo, Hughes scelse proprio quella in cui sbagliava. E quella scelta stava creando con tutti noi comunanza, ci stava insegnando come la parte più vulnerabile di noi stessi non è una parte da ipercontrollare, negare e nascondere per paura, vergogna o timore del rifiuto. Ma è una parte che ha pieno diritto di non rimanere in panchina e di giocare. Che ha il potere di smorzare i contrasti, di creare fiducia e di aprire le porte a nuove possibilità. Una parte che è immensamente generativa se riusciamo a capire che starle accanto non vuol dire necessariamente avere una minaccia che ci soffia dietro le spalle. E ricordo, adesso ricordo, che è proprio questo l’insegnamento più importante che, prima ancora del loro sguardo policromatico, i miei tanto amati maestri - antichi, recenti e futuri - mi hanno regalato. Che questo è l’insegnamento, se così proprio lo vogliamo chiamare, che un terapeuta può donare a un paziente.

 


Dott.ssa Anna Rossi
Psicologa Psicoterapeuta a Reggio Calabria

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Dott.ssa Anna Rossi
Psicologa Psicoterapeuta a Reggio Calabria

Iscritta dal 2007 all’Albo degli Psicologi della Regione Calabria n. 1052
Laureata nel 2005 in Psicologia, indirizzo psicologia del Lavoro
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