L’allegria dello stregatto

Dott.ssa Anna RossiPsicologa Psicoterapeuta a Reggio Calabria

Questo racconto è un'opera di fantasia che mette insieme e trasforma storie di donne raccolte durante il mio lavoro come psicoterapeuta. Storie amare e delicate, piene di terrore ma anche di speranza. La speranza di tornare a respirare la vita a pieni polmoni e di fare delle proprie ferite nuove consapevolezze. Questo racconto è per tutte loro, per quello che mi hanno insegnato e per il loro grande coraggio.

...un gattone se ne stava accovacciato accanto al fuoco con un sorriso che gli andava da un orecchio all'altro...
Giulia si presenta a studio all’orario concordato. È la prima volta che la vedo. Ha poco più della mia età ed è ben curata. Indossa un vestito nero che le scende morbido sui fianchi e una larga sciarpa di un viola sgargiante che le avvolge le spalle. Un trucco leggero sporge discreto dall’incarnato color porcellana. Ha gli occhi verdi, i capelli ricci dello stesso colore del miele scuro di castagno, il naso piccolo e le labbra sottili. Un volto raffinato che, ciononostante, appare scomposto da un sorriso così ampio da fare concorrenza a quello dello Stregatto. Lo ricordate? Quello di Alice nel Paese delle Meraviglie. Il gattone a strisce che appare e scompare a suo piacimento. Che può addirittura scegliere di mostrare solo il sorriso lasciando invisibili le altre parti di sé.  
La mia mente inciampa su quel sorriso e per un attimo perdo l’equilibrio.

«Non sapevo che i gatti del Cheshire sorridessero sempre; anzi, non sapevo neanche che i gatti sapessero sorridere» disse Alice.  «Tutti i gatti sanno sorridere» rispose la Duchessa «e quasi tutti lo fanno. Tu non sai un granché e questo è un fatto».
Al mio segno varca la porta con passo spedito. La faccio accomodare in quella che sarà la nostra stanza e le chiedo del motivo che la ha portata da me.
“Sono qui perché voglio imparare a volermi bene. Lei mi deve dare una mano”.
Non intervengo ancora se non con un piccolo cenno di capo e lei continua.
"Sono stanca degli uomini. Finalmente l’ho capito: non ci possono amare. Dobbiamo amarci da sole. Perché noi donne siamo forti, al di la di ciò che pensiamo. Noi non abbiamo bisogno di loro”.
Il tono è pomposo e distante. Mi scorre davanti l’immagine di un’attrice che, dopo infinite prove nel camerino, può finalmente declamare la parte sul palcoscenico. E lo fa a volume sostenuto, senza indugi, senza pause. Mi chiedo chi sia in quel momento il pubblico, mi suggerisco lei stessa.
Per un attimo vedo anche me seduta in quella platea, quindi decido di spogliarmi delle vesti di spettatrice e di intervenire chiedendole della sua vita sentimentale. Mi racconta di Paolo, del loro primo incontro, delle passeggiate mano nella mano, delle promesse di amore lungo una vita. Mi riferisce i nomignoli che erano soliti usare e i progetti che avevano tessuto nello spazio di un lungo abbraccio.
“Lui mi faceva sentire speciale”.
Vedo i suoi occhi inumidirsi di tenerezza. Mi tornano in mente le sue prime battute e mi sento confusa. Chiedo conferma di quello che ho sentito.
"Quindi Giulia mi sta dicendo che Paolo è stata una persona importante nella sua vita. Che l’ha fatta sentire amata…”.
Giulia sorride, mi riporta in fondo alla platea e mi tiene bloccata lì mentre, da  lontano, mi mostra nasi spaccati, raffiche di calci, mani sottili che girano nervosamente una chiave nella serratura, porte divelte.
“Questo mi ammazza”.
E ancora scale scese di corsa con il cuore in gola, fughe in strada nel bel mezzo della notte, sirene urlanti sotto casa.

«Micio bello del Cheshire» cominciò Alice con un certo timore «mi vuoi dire, per favore, quale strada devo prendere per uscire di qui?». «Dipende in gran parte da dove vuoi andare» rispose il Gatto.
e domando dove accadevano quelle scene.
“Nella nostra casa”.
Chiedo a Giulia di farmi entrare in quell’appartamento. Lo faccio timidamente, per paura di spingere troppo sull’acceleratore. Giulia non si rifiuta. I suoi modi diventano gentili e formali mentre apre la porta, mi fa accomodare e mi mostra un appartamento arredato con attenzione sino all’ultimo dettaglio.
“L’abbiamo ristrutturato interamente noi. Ogni cosa l’abbiamo fatta io e Paolo, insieme”.
Mi racconta della scelta del tavolo della cucina.
“Paolo ne voleva prendere uno di vetro ma, si sa, poi si riga. Sei costretto a farci troppa attenzione e lui è distratto. Allora gliene ho proposto uno di legno, che è quello che poi abbiamo comprato. Ci ho messo tanto tempo a convincerlo, ma alla fine ce l’ho fatta!”.
Si sente orgogliosa di sé e ogni muscolo del suo volto lo rivela. Mi fa sentire il profumo del cibo scelto con premura la mattina e cucinato con amore per cena. Mentre si muove tra fornelli e pentole borbottanti, il suo volto si rabbuia e le sue spalle si curvano. I nostri corpi, il suo e il mio, mi informano che lo scenario è cambiato. E che io sono rimasta fuori. Provo a rientrare.
“Come si sente adesso?”.
“Non lo so…”.
Insisto.
“Come appesantita”.
Mi faccio indicare quella pesantezza nel corpo: lei prima si preme una mano sul petto e poi tutte e due.
"C’è stato qualcosa in quello che ci siamo dette che l’ha turbata?”.
“Non lo so, stavamo parlando di quando preparavo la cena”.
Le chiedo di tornare in cucina. Giulia accetta e appena rientriamo allontana con un dito il mio sguardo dalle pentole sui fuochi indicando gli schizzi marroni di cibo rimasti incollati ai muri e le schegge di piatti rotti sul pavimento come pozzanghere dopo il temporale. Vedo crepe profonde solcare le pareti da poco tinteggiate e strati di polvere nera coprire ogni cosa. Giulia mi dice è troppo, che ha paura che Paolo ritorni. Quella emozione le sta trasformando il volto e io decido di riportarla nella nostra stanza. Mi accerto che si senta di nuovo al sicuro e poi le domando come è stato portarmi in quel posto, farmi vedere quelle cose. Mi dice che è stato doloroso, che adesso prova tanta vergogna. Che quella vergogna la fa sentire vulnerabile e sbagliata, ma che non sente più così forte quel peso al petto.
Le sedute successive chiedo a Giulia di tornare nuovamente in quelle stanze durante quelle notti. Avanziamo un passetto alla volta. Durante uno dei nostri incontri mi faccio raccontare come nascevano le liti con Paolo.

«…purché io arrivi da qualche parte» aggiunse Alice come spiegazione.
"Ti amo. Già dai tempi della scuola ti avevo notata, praticamente ti vengo dietro da sempre. Già da allora volevo dirtelo, ma ogni volta che ti avevo vicina mi bloccavo. Pensavo di non poterti piacere. Tu così bella e io ….".
"Ma dai? non mi ero mai accorta di nulla. E per tutto questo tempo te lo sei tenuto dentro? Menomale che alla fine ti sei deciso. Sono felice che tu sia nella mia vita".
E poi morbidezza, occhi socchiusi e intimità.
BEEP.
Arriva un sms. Giulia si scioglie solo per un attimo dall’abbraccio di Paolo, allunga la mano e prende il telefono. Legge. Lui diventa legnoso.
"Sempre con quel telefono in mano. Rispondi, ti raccomando, altrimenti i tuoi amichetti ci rimangono male…".
"Paolo ma che stai dicendo?".
"Tu vuoi altro! Dillo che non ti vado bene. La Signora qui è abituata a ben altro, mica a quelli come me che non sono neanche riusciti a laurearsi. Ma tanto oramai le tue cartucce te le sei sparate".
"Ma è solo un messaggio di Riccardo, vedi? Leggi se non mi credi. Gli avevo chiesto di farmi sapere a che ora sarà la presentazione di quel libro domani".
"Eh già, Riccardo, il tuo amichetto. Lui sì che è proprio un intellettuale, di quelli che piacciono a te. Ma che ti sembra, che sono scemo? Lo so cosa facevi con quel poveraccio, lo sa tutta la città. Sei caduta proprio in basso. Fattene una ragione: solo a quelli come lui puoi ancora fare qualche effetto".
Giulia piange. Cerca il suo Paolo. Lo cerca ovunque. Non lo trova in nessun posto.
"Sei una zoccola! Solo questo sei: una povera zoccola!".
"Brutto bastardo devi morire".

«Ma da qualche parte ci arrivi di sicuro» disse il Gatto «se vai sempre avanti senza fermarti».
Giulia è nella nostra stanza. Piange, le manca il fiato, si tiene forte il petto, tossisce, mi dice che si sente morire. Che non ce la fa. Che è sicura che non ce la farà. Non mi guarda. Non riesce a sollevare lo sguardo dal pavimento. È solo lì che può stare, in quel minuscolo punto nero del pavimento. Non ha la forza di muoversi. Poi ci prova a venire da me e lo fa con una battuta che suona come uno schioppo di fucile in un bosco desolato.
“Se si può inviare un uomo sulla luna, perché non mandarli tutti?”.
Ci si aggrappa e ride di gusto. Con un breve sguardo mi chiama a ridere con lei. Io declino l’invito e aspetto che l’effetto di quell’anestetico si consumi.
Accade molto rapidamente, più dei postumi di una bevuta al pub con gli amici, più dell’effetto dell'Aulin durante il ciclo. Giulia piange di nuovo e io sento incontenibile la spinta a fare qualcosa, a consolarla, ad avvicinarmi a lei. Ma so che l’unica cosa giusta da fare è diventare quel punto nero del pavimento. Che posso farlo solo non agendo, rimanendo ferma e provando a sintonizzarmi con quel dolore senza volerlo riparare a tutti i costi. Con fatica ci riesco: divento quel punto nero del pavimento e comincio a sentire anche io un peso premermi il petto. Mentre sono mimetizzata tra le venature di quei listoni di marmo, Giulia si volta e mi fa guardare lacrime di disperazione segnarle il volto. Mano a mano il pianto rallenta, perde la furia del ciclone e diventa una brezza leggera che porta sollievo. E anche quando tutto è finito, Giulia rimane lì: aggrappata mani e piedi al mio sguardo.
Giulia continua a venire agli appuntamenti con regolarità e io la sento più comoda in quella stanza dove, ogni volta, mi mostra tutta la sua eredità: l’immobilità dei suoi “non ce la farò mai”, il disordine dei suoi “ho sentito una amica che sta in Portogallo. Mi sono informata sugli affitti. Penso di raggiungerla. Oggi stesso faccio i biglietti. Aprirò una pasticceria e ricomincerò tutto da capo”, la speranza surrogata dei suoi “lei pensa che riuscirò a stare meglio? Che ci sarà un futuro migliore per me?”. 
A volte mi coccola come una bambina, mi chiede “come sta? Poi quel mal di testa le è passato?” e mi copre di regali. Altre volte si rivolge a me come a un genitore cui raccontare la giornata di scuola appena terminata. Mi invia video e canzoni. Parlano di amore, di relazioni complicate, di uomini, di donne, del destino, della libertà. Mi invita a guardarli, ad ascoltarli, ad approvare quel mondo che è come un pozzo profondo da cui ha sempre tentato di attingere la forza. Riesce ad affidarsi sempre di più: ha bisogno di sapere che ci sono. Che lei c’è nella mia mente.

Alice capì che era una risposta inattaccabile e provò a fare un'altra domanda «Che gente vive da queste parti?».
Negli incontri successivi ci torniamo dentro quelle stanze e su quelle strade. Non devo più chiederle il permesso di accompagnarla: adesso è lei che mi vuole come testimone. Durante uno dei nostri soliti tragitti ho l’impressione che voglia fare una deviazione. Me ne accorgo perché il suo sguardo si sposta su un altrove imprecisato, il suo tono di voce diventa più basso, il suo atteggiamento si fa più cauto e prudente. Le chiedo cosa c'è in quell'altrove.
"La casa dei miei genitori”.
In pochi passi ci troviamo sulla porta di ingresso di un palazzotto di tanto tempo fa. Decidiamo di entrare. All’interno un disimpegno è costeggiato da stanze spoglie e poco illuminate. Dentro quelle stanze la stessa polvere che abitava l’appartamento in cui ha vissuto con Paolo. Alla nostra destra c’è una camera con la porta chiusa. Per un attimo vedo i suoi occhi verdi posarsi lì tremanti e poi subito cambiare direzione. Le dico che è importante entrare, mi risponde che le fa male il petto. La rassicuro del fatto che in ogni momento potremo uscire e che se non ce la farà da sola sarò io a portarla fuori. Apriamo la porta: dentro quella cucina grigia Giulia bambina se ne sta seduta su una pesante sedia di ciliegio. È sola e cerca compagnia tra gli abitanti bizzarri di un mondo fantastico.
“Smettila di piangere. Adesso per punizione stai qui tutto il giorno. Qui, seduta su questa sedia. Non ti muovere!”.
Le chiedo chi è che parla.
“Mia madre”.
La porta si chiude facendo un rumore sordo e poi la chiave gira due volte nella serratura. Giulia bambina non si muove di un millimetro. Rimane seduta ad aspettare. Si fa sera e lei lo sa perché la stanza adesso è completamente al buio. All’improvviso la porta si riapre ma oltre quella nessun abbraccio pronto ad accoglierla, solo uno sguardo severo e l’ordine di andare a dormire.
Le chiedo dove è il padre e lei si mostra felice accanto a quell’uomo che le compra i giocattoli, le accarezza la testa e va a prenderla fuori da scuola. Le piace sentirsi “una cosa bella”. Ogni volta lo aspetta arrivare dal lavoro seduta per strada su uno scalino, con le ginocchia tra le braccia e il capo chino. Il mondo le passa davanti veloce e lei lo ignora. Alza la testa solo quando, con la stessa infinita fedeltà di un cane al suo padrone, ne riconosce da lontano i passi e l’odore. Poi Giulia mi dice che sente di nuovo un peso al petto. Le domando da dove arriva quella sensazione, mi risponde che non lo sa ma che il papà non va più a prenderla a scuola. È certa che lui desidererebbe farlo, ma il fatto è che non può. Suo papà non esiste più e lei lo sa cosa vuol dire non esistere più - lo ha imparato in quel vuoto che sente forte dentro - ma il mondo intorno a lei no. O forse semplicemente non se ne è accorto perché gira veloce, come prima, più di prima. Le chiedo chi ascolta il dolore di Giulia bambina e lei mi mostra i gettoni di plastica colorata che gli dà mamma. È lì che lo nasconde il dolore, prima di infilarlo con le sue manine delicate dentro le giostre della Villa Comunale. Così, mentre sua madre cerca di afferrare tutto quel che può di quel mondo che va veloce, Giulia cerca un contatto con lei fingendo la felicità su un cavallo colorato che gira in tondo e va su e giù. E tra un gettone e l’altro, durante quelle galoppate metalliche in cui si ripete che deve essere felice e ride come lo Stregatto, una voce continua a sussurrarle “Mamma si è accorta che papà non c’è più?”.

«In quella direzione» disse il gatto agitando la sua zampa destra «vive un Cappellaio»
È un martedì caldo e afoso, di quelli che ci sono da queste parti quando i venti dello Stretto decidono di prendersi qualche giorno di ferie non curanti delle conseguenze sugli abitanti di quei due lembi di terra che si affacciano l’uno sull’altro nel bel mezzo del Mediterraneo. Giulia arriva a studio con uno sguardo diverso dal solito. Le chiedo come è andata la settimana e mi dice di avere sbirciato sul profilo Facebook di Paolo durante un pomeriggio interminabile in cui ha provato un forte senso di solitudine. Ha visto un suo post recente, uno di quelli che prendi un'immagine con sopra riportata la frase di qualcuno e la schiaffi direttamente lì senza neanche perdere tempo a scrivere. Sullo sfondo di due bambini che si abbracciano davanti a un mare caraibico, dal dorato della sabbia, spiccano parole di un bianco candido che a Giulia suonano come un monito.
NESSUN RAPPORTO È PERFETTO O IMMUNE DA INCOMPRENSIONI.
È LA VOLONTÀ DI SUPERARLE CHE FA LA DIFFERENZA
Le domando che effetto le ha fatto leggere quel post e mi dice di essersi messa tanto in discussione. Che sente di avere sbagliato con lui, che avrebbe potuto fare qualcosa di più, che non lo ha capito abbastanza e che lui ne ha sofferto.
"Forse ancora ne soffre, ecco il perché di quel post! Anche io lo insultavo, gli dicevo cose orribili: che è  pazzo, che si deve curare. Che non troverà mai nessuna perché non c’è al mondo una donna così stupida da accettare quello che ho accettato io. Chissà come si sarà sentito in quei momenti”.
Giulia piange pesanti lacrime di colpa.
“Forse non ho capito che voleva solo amarmi. Avrei potuto tentare un’altra strada, cercare di aggiustare il  rapporto, piuttosto che andarmene e mollarlo lì. Da solo. Poi denunciarlo …  e se lo arrestano? È vero, non è stato un santo, ma anche per lui la vita non è stata facile. Tante  volte si è comportato bene, forse cercava solo di rendermi felice”.
Chiedo a Giulia come si sente. Mi dice di essere confusa, di non riuscire più a capire cosa sia giusto e cosa no.
“La sensazione di non potere fare affidamento su quello che prova, perché tutto dentro di lei è confuso e contrastante, è qualcosa che ha già provato prima d’ora?”.
Giulia posa per qualche secondo lo sguardo nel vuoto, in un punto in alto a sinistra, come facciamo tutti noi quando rovistiamo tra le scatole della nostra memoria in cerca di un ricordo. Mi racconta dello zio e di quanto fossero divertenti le estati trascorse da lui in montagna. La casa di zio era bella e luminosa. Aveva sette stanze e un ampio cortile immerso nel verde. Niente a che vedere con la sua, che era piccola e grigia. Poi l’aria lì era pulita e lei non era più da sola: poteva finalmente giocare sul prato con i cuginetti ai suoi giochi preferiti, che erano nascondino e palla avvelenata. C’era sempre un grande baccano in quel cortile e questo le dava la sensazione rassicurante che tutto andasse bene. Poi c’erano le storie di zio. Lui era un uomo colto: era andato all’università da giovane e per questo sapeva tante cose interessanti sulle stelle e sui pianeti. E lei, già da piccola, aveva una curiosità insaziabile: sarebbe rimasta ore e ore ad ascoltarlo.
Mentre mi parla con profonda ammirazione di quell’uomo, io sento un brivido sottile salirmi su per la schiena come un allarme che grida PERICOLO. Devo conoscerlo meglio e mi faccio aiutare da Giulia. Mi mostra la stanza in cui ogni pomeriggio la aspetta per giocare. La sequenza è questa: lei entra, chiude la porta come ormai ha imparato a fare e lo raggiunge sulla sua sedia mentre lo stereo suona i Jethro Tull. Lui le fa segno di salirgli in braccio e poi comincia a raccontarle delle bellissime e interessantissime storie. Lei prima, quando zio parla del Big Bang e di come sia piccola e blu la Terra vista dallo spazio, vuole rimanere con lui ma poi, quando le storie finiscono e lei sente solo le sue mani viscide e rapaci, non lo vuole più. E qualche volta glielo dice.
"Non mi piace questo gioco!".
Sì, qualche volta ce la fa a tirare fuori la voce.
“NO”.
Mentre è in quella stanza, nessuno fuori si accorge della sua assenza. Nessuno entra nella stanza di zio in quei momenti: sono tutti troppo impegnati a fare baccano fuori o forse è perché non amano le storie sul Big Bang, le costellazioni e i pianeti. Ma lei non si rassegna e ogni volta aspetta che mamma, zia, nonna aprano la porta e dicano a zio che quel gioco a Giulia non piace. Che la proteggano. Ma non accade mai. Giulia non riesce a capire il perché di quella indifferenza e prova a rispondersi con altre domande.
“Forse non è importante? Forse non sono importante?”.
E poi lo chiede a me, dalla sua poltrona.
"E' importante? Sono importante?”.
Affido la mia risposta a uno sguardo e invito Giulia a tornare, da adulta, in quella stanza. Ad entrarci proprio nel momento in cui lei è piccina ed è seduta sulle gambe di zio. Le dico che la accompagno. Accetta. Siamo fuori dalla stanza: Giulia respira profondamente tre volte, tentenna per qualche secondo e poi finalmente spalanca quella porta. Senza esitare si dirige verso la piccola, la prende in braccio, la stringe forte a sé e le accarezza la testa come avrebbe fatto suo padre. Poi si volta verso lo zio e gli urla in faccia parole di rabbia e di odio. Io rimango sulla porta e non appena vedo Giulia fare come per uscire, sento di dover intervenire. Ché è importante che questa volta qualcuno la difenda.
“Vorrei parlare anche io a suo zio …”.
Mi guarda intensamente e mi dice “Va bene”.
Questa volta è lei a rimanere al varco.
“A Giulia questo gioco non piace e nessuno può costringerla a giocare. Lei non vuole. Te lo ha detto. E io ho visto quello che facevi. Non è un gioco: è una cosa orribile fatta a una bambina che ha bisogno solo di essere protetta. Non ti avvicinare a lei mai più. Mai più!”
Nella testa di Giulia rimbombano quelle parole mentre trema di paura e di gioia e le domande di prima diventano affermazioni. Sente che può tornare a fidarsi di se stessa, che non è sola, che adesso è il suo aguzzino dalle mani viscide e rapaci ad avere paura. Che in quella stanza è rimasto da solo e non può più farle male.

«e in quella direzione» agitando l’altra zampa «vive una Lepre Marzolina».
Qualche giorno dopo in seduta Giulia mi dice di essere stata a fare visita alla madre.
Sono in quella casa piccola e grigia. Giulia le cucina qualcosa di caldo, mangiano insieme e poi si siedono sul divano per dar vita a quel rituale di rassicurazioni reciproche e fittizie sul fatto che vada tutto bene. Quasi subito comincia a sentirsi scomoda. Questa volta se ne accorge e non si ignora. Le torna in mente la stanza di zio e si ricorda che è importante.
"Sapevi cosa succedeva a casa di zio? Perché non hai fatto niente? Perché mi tenevi chiusa pomeriggi interi in quella cucina? Ti sei mai accorta che papà non c’è più?”.
Sua madre si congela per un attimo e poi si lascia cadere sul pavimento. Da lì, dal freddo di quella graniglia bianca e nera, si dimena come in preda agli spasmi e urla.
“Tu mi vuoi fare morire, smettila, smettila. Muoio!”
Giulia sa che lì, tra quelle mura, non ci saranno risposte per lei. E sente di non volerle più quelle risposte, che adesso le ha trovate dentro di sé. Non si sente confusa quando si gira, torna indietro sui suoi passi e si chiude la porta alle spalle lasciando sua madre lì, sul pavimento.
Le torna in mente la notte in cui ha denunciato Paolo. Lui è a casa dietro la porta che ha chiuso, la stessa dell’appartamento di sua madre; lei insieme a due uomini con gli abiti grigi e blu dentro una stanza illuminata da luci fredde. Parla e piange. Loro la ascoltano e  aspettano in silenzio quando ha bisogno di fare una pausa. Uno scrive al computer e poi alla fine, con delicatezza, rilegge a voce alta tutto quello che Giulia ha raccontato. Lei riprende a piangere e lui le passa un fazzoletto per asciugarsi il viso. Giulia prende quel fazzoletto, se lo passa sugli occhi gonfi e dice “grazie”. In quella stanza, con quei due uomini, Giulia non sa ancora con certezza se mai tornerà indietro, da Paolo.
Siamo sulle nostre poltrone. Le domando come sta. Mi dice che sente di aver fatto la cosa giusta, che quelle porte non vuole più riaprirle, che non è più capace di fingere a se stessa quello che non c’è. Sul suo volto orgoglio e coraggio si mescolano a una profonda solitudine. Sento che è più libera, ma capisco anche che adesso è veramente sola. Decido di avventurarmi nelle sue memorie in cerca di calde presenze. In realtà è suo padre che sto cercando, per portarlo lì, tra di noi. Le chiedo di poterlo vedere in foto. Giulia apre il portafogli e me ne mostra una in bianco e nero. Le somiglia tanto. Stavolta comincio io a piangere e subito dopo lei con me. Lo facciamo piano, così lentamente che il tempo della nostra seduta sembra dilatarsi. Mi sorprendo ad accorgermi che manca anche a me quell’uomo e a sentire così forte, nelle braccia e nelle gambe, quella assenza nella vita di Giulia. Non ci sono cavallucci colorati nella nostra stanza: solo io e lei, profondamente vicine in quella mancanza. Giulia prende due fazzoletti dalla borsa, me ne passa uno, si asciuga gli occhi e, mentre io faccio la stessa cosa, mi sorride in un modo che non mi fa più venire in mente lo Stregatto.

«Ma io non voglio andare in mezzo ai matti» obiettò Alice. «Beh, è inevitabile.» le rispose il Gatto «Siamo tutti matti qui: io sono matto, tu sei matta». «Come lo sai che sono matta?» disse Alice.
«Devi esserlo» disse il Gatto «altrimenti non saresti venuta qua»
Sono passati otto mesi da quando ho visto Giulia la prima volta. La sua vita non è cambiata di molto ma il modo in cui la percorre sì. È più sicura, più attenta ai segnali che la attraversano, più disposta a lasciarsi guidare da quello che sente. È più fiduciosa nei confronti del mondo: mi racconta, ad esempio, di passeggiate in macchina su strade di campagna con il suo amico Gino cantando a squarciagola i migliori successi degli anni ’80. Dei thè pomeridiani da Rita, la sua vicina di casa, oramai diventati un appuntamento fisso. Del gatto di lei che ogni volta, mentre le si strofina addosso e fa le fusa, sembra dirle “sono felice di vederti”. Mi dice che Pasquale le ha voluto fare conoscere un editore interessato a pubblicare la sua raccolta di poesie, che lei ci è andata a quell’appuntamento e che, anche se non vuole farsi castelli in aria, ha la sensazione che i suoi lavori gli siano piaciuti. Glielo ha proprio detto in realtà. Ha ripreso a tenere lezioni di yoga nella palestra di una amica: lo fa ogni venerdì sera e il numero di partecipanti sta aumentando. Sta anche ricominciando ad andare in giro per locali.
“L’ho vista al Fifty's sabato. Era con un uomo. Non l’ho salutata perché non volevo disturbarla. Vi ho guardati: state bene insieme. E sa cosa? Mi sono sorpresa a non immaginare nulla di male, che è quello che faccio sempre quando vedo una coppia. Ogni volta penso: questo qui sembra tutto caruccio ma scommetto che in realtà è uno stronzo. Invece stavolta nulla!”
Sorrido, le dico che quell'uomo è il mio compagno, che non siamo una coppia perfetta ma che ci mettiamo cura nella nostra relazione e questo ci fa stare bene. Il fatto che Giulia abbia aperto quell’argomento, che lo abbia fatto in un modo così estraneo al modo in cui l’ho sentita parlare la prima volta, mi consente di chiederle della sua situazione sentimentale. Non l’ho più fatto da quando mi ha spiegato perché secondo lei gli uomini “non ci possono amare". Mi racconta di avere conosciuto una persona e di averci anche preso un caffè insieme. Che ha voluto mettersi alla prova ma anche capire meglio quello che sente: in fondo le ha fatto piacere che glielo abbia chiesto. Qualche giorno dopo quel caffè lui le ha chiesto nuovamente di incontrarsi e lei ha preso tempo. Ha il timore di sbagliare di nuovo: e se poi non è quello che pensa? Ha l’urgenza di fornirmi il suo identikit, come se questo mi autorizzasse a sentenziare sulle reali intenzioni di lui, e lo fa. Si chiama Franco, è moro, alto, con la pancetta ma comunque un bell’uomo. Mi mostra una sua foto rubata su Facebook.
“É un bell’uomo, no? Che ne pensa? È un papà single: l’ex moglie è voluta tornare al suo paese di origine e, siccome la vita lì è più dura, lui ha chiesto di potere tenere con sé il bambino. Ce n’è voluto un po’, ma alla fine lei ha accettato”.
l bambino adesso vive con lui. Madre e figlio però si sentono spesso, si fanno anche le videochiamate su Skype. Lui ci tiene che tengano i contatti, sa quanto è importante non recidere quel legame.
“Suo figlio è la sua ragione di vita! Mentre mi raccontava di come ogni giorno lo porta all’asilo, gli cucina cose sane, ci gioca insieme, per poi la sera trovarsi con una caterva di panni da lavare e stendere, si è commosso. Non era per la stanchezza, che quella c’è anche, ma perché lo ama così tanto che solo parlarne gli fa venire le lacrime agli occhi. Mi sembra uno che vuole fare tutto il possibile affinché a suo figlio non manchi nulla”.
Domando a Giulia che è effetto le ha fatto vedere quella commozione.
“Mi sono commossa anche io”.
Nella sua risposta non intravedo nessuna compulsione all’accudimento. Giusto per intenderci: non sente il desiderio di fare le lavatrici al posto suo. Mi sta semplicemente dicendo che si è sentita vicina a quell’uomo che le parlava delle sue piccole grandi sfide quotidiane, che le mostrava senza troppo timore le sue fragilità, che non faceva nulla per nascondere la sua malinconia. Che lo ha sentito sincero e sicuro. Mentre Giulia scorre nella sua mente le immagini che mi sta descrivendo, io vedo una luce illuminarle il viso e so che è importante tenerla lì. Le chiedo come si sente e poi aggiungo "nel suo corpo". Mi descrive una scena che ricorda quella di Alice quando apre la scatolina di biscotti con scritto MANGIAMI, ne addenta uno e di colpo diventa più grande. Sente ogni parte del suo corpo espandersi e, a differenza però di Alice che rimaneva quasi incastrata tra il tetto e il pavimento, diventare più fluida. Si sente così sciolta che potrebbe fare una capriola proprio lì, in quel momento, nella nostra stanza.
“Ricorda altre volte in cui si è sentita così?”.
Mi racconta delle domeniche in cui, prima di conoscere Paolo, andava in vespa con gli amici dopo una settimana di estenuante lavoro al ristorante: su quella sella era lei che andava veloce, più veloce del mondo intorno. La promessa della domenica che l’aspettava, del vento che di nuovo le avrebbe accarezzato il viso e capelli, della natura che l’avrebbe inebriata salendo su per le narici, le dava ogni giorno la forza per affrontare la fatica di piatti, bicchieri e posate da portare, levare, lavare e asciugare. Mi dice di Rino e di quella volta che durante una lite in famiglia l’ha difesa da tutti i suoi parenti.
“Ha fatto un casino. Urlava come un matto. Gli ha detto che mi dovevano lasciare in pace e poi mi ha preso per mano e mi ha portato fuori da quella casa”.
Ricorda che in quel momento si è sentita respirare a pieni polmoni. Il volto di Giulia adesso è vitale, espressivo, privo dell’ombra di ciò che le è stato tolto. La sento serena. Forte. BEEP.
Il suo telefono è sulla scrivania, lei abbassa lo sguardo con discrezione per sbirciane l’anteprima e poi, senza curarsi di me e della nostra seduta, lo prende e legge. Le sue labbra diventano un bel sorriso e il suo pollice comincia a picchettare sul display come sui tasti di un pianoforte.
“È Franco”.
I suoi occhi sono di nuovo di fronte ai miei. Legge ad alta voce il messaggio.
SE NON SONO TROPPO INVADENTE E SE PENSI DI POTER SOPPORTARE ANCORA LA MIA PRESENZA, MI PIACEREBBE VEDERTI STASERA PER MANGIARE QUALCOSA INSIEME.
SE TI VA SCEGLI TU IL POSTO E L’ORA
Guarda di nuovo il telefono, poi ancora me.
“Gli ho risposto. Gli ho scritto OK. Non posso mica essere l'unica a volermi bene! Che ne dice? Io dico che è importante!”.

Alice non pensava che questo bastasse a dimostrarlo, ad ogni modo andò avanti «E come sai di essere matto?». «Per iniziare» disse il Gatto «un cane non è matto. Concordi?». «Immagino sia così» disse Alice. «Bene, allora vedi» il Gatto continuò «un cane ringhia quando è arrabbiato e scodinzola quando è felice. Io ringhio quando sono felice e agito la coda quando sono arrabbiato. Quindi sono matto». «Io lo chiamo fare le fusa, non ringhiare» disse Alice. «Chiamalo come preferisci» disse il Gatto.
da Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carrol


Dott.ssa Anna Rossi
Psicologa Psicoterapeuta a Reggio Calabria

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Dott.ssa Anna Rossi
Psicologa Psicoterapeuta a Reggio Calabria

Iscritta dal 2007 all’Albo degli Psicologi della Regione Calabria n. 1052
Laureata nel 2005 in Psicologia, indirizzo psicologia del Lavoro
P.I. 02638050803